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  • 4 min lettura

    Lo shubo, parola che si scrive con gli ideogrammi di sake 酒 e di mamma 母, viene chiamato appunto “madre del sake” perché si tratta del composto che funge da starter. Un altro nome usato per definire questo composto è “moto” (酛), il cui ideogramma contiene quello di “base”, “fonte”. Il suo obiettivo, infatti, è quello di accrescere la quantità dei lieviti, quindi di creare una buona base per il processo di fermentazione vero e proprio che avverrà nel moromi.

    Il moromi (醪), per l’appunto la fase successiva della fermentazione, prevede il trasferimento dello shubo in grandi taniche dove kakemai, kojimai e acqua vengono aggiunti in tre step.

    Kimoto-kei e sokujo-kei

    Lo shubo viene fatto unendo riso koji (kojimai 麴米), riso sbollentato (kakemai掛米) acqua e lievito in una piccola tinozza da circa 200 kg. Oltre a questi ingredienti, in base al tipo di metodo utilizzato, ci può essere l’aggiunta manuale di acido lattico (sokujo-kei), che aumenta l’acidità dello shubo e impedisce ai batteri di intaccare i lieviti, oppure si lascia che i batteri dell’acido lattico si propaghino in modo naturale (kimoto-kei).

    Il metodo tradizionale per creare lo shubo è il metodo Kimoto-kei. Come anticipato, in questo metodo non vi è aggiunta manuale di acido lattico perché si aspetta che i batteri di quest’ultimo si propaghino autonomamente nel corso di circa tre-quattro settimane. I batteri dell’acido lattico producono una varietà di componenti diverse dall’acido lattico stesso che danno vita a uno shubo ricco, aromatico e dal gusto più profondo rispetto allo shubo del metodo sokujo.

    Il metodo kimoto si divide in due sotto-categorie: Yamaoroshi jikomi (山卸し仕込み) e Yamahai jikomi (山廃仕込み).

    Yamaoroshi: prima che la tecnologia di sbramatura del riso si sviluppasse completamente, i chicchi di riso, per quanto sbramati, erano comunque molto grossi. Per questo motivo, siccome si pensava che il riso dovesse essere ridotto in poltiglia affinché gli amidi venissero trasformati in zuccheri, ci voleva davvero molto tempo perché si verificasse il processo di saccarificazione, e per raggiungere questo scopo i kurabito passavano ore e ore a mescolare la mistura dello shubo con dei lunghi bastoni.

    Yamahai: nel 1909 gli scienziati del National Institute of Brewing Research scoprirono che il processo Yamaoroshi non era necessario e che, anche senza mescolare in continuazione lo shubo, gli enzimi del kojimai alla fine scioglievano tutto il riso. Quindi, il processo yamaoroshi poteva essere eliminato, in giapponese “haishi”. L’espressione “yamaoroshi haishi” fu poi abbreviata in “yamahai”, nome che si riferisce appunto all’eliminazione dell’operazione yamaoroshi.

    Nel 1910 il National Institute of Brewing Research mise a punto il metodo Sokujo-kei per la creazione dello shubo. In questo metodo, il cui nome significa appunto “sviluppo rapido”, l’acido lattico viene aggiunto manualmente allo shubo in forma liquida anziché attendere che i batteri si propaghino naturalmente. In questo modo, lo shubo può essere completato in circa due settimane, più o meno la metà del tempo necessario allo shubo del metodo Kimoto.

    I sake prodotti con questo metodo hanno un gusto più leggero e pulito e rappresentano circa il 90% del sake giapponese. Solo il 10% dei sake, infatti, viene prodotto usando il metodo kimoto-kei.

    Il moromi

    Dopo il completamento dello shubo, processo che, come abbiamo appena visto, può richiedere da 1-2 settimane fino a 3-4 settimane, quest’ultimo viene trasferito in grandi taniche dove vengono aggiunti ancora kakemai, kojimai e acqua, andando a creare una mistura che prende il nome di moromi(醪). L’aggiunta di questi ingredienti avviene in tre step in un lasso di tempo di circa 4 giorni, ecco perché questo processo prende il nome sandan jikomi (三段仕込み), dove “sandan” significa per l’appunto “3 step”, “3 fasi”. Lo scopo di questo processo in 3 fasi, perfezionato nel periodo Edo (1603-1868), è quello di evitare che l’aggiunta degli ingredienti in un’unica volta diluisca troppo l’ambiente acido necessario alla fermentazione e che altri microorganismi si riproducano e vadano a intaccare i lieviti che, essendo microorganismi, sono molto vulnerabili.

     Le 4 giornate del sandan jikomi prendono nomi diversi in base all’operazione che viene effettuata:

    Shubo e Moromi

     

    Primo giorno – Hatsuzoe (初添え)

    Dopo aver versato lo shubo, viene aggiunto circa il 20% di kakemai, kojimai e acqua.

    Secondo giorno – Odori (踊り)

    Non viene aggiunto nulla e i lieviti si propagano.

    Terzo giorno – Nakazoe (仲添え)

    Viene aggiunto circa il 30% di kakemai, kojimai e acqua.

    Quarto giorno – Tomezoe (留添え)

    Viene aggiunto circa il 44% di kakemai, kojimai e acqua.

    Dal quarto giorno e per altre due-quattro settimane la fermentazione prosegue e si parla di Fermentazione Multipla Parallela perché la saccarificazione e la fermentazione alcolica proseguono contemporaneamente: in una singola, grande tanica, gli enzimi del kojimai dissolvono il riso trasformandolo in zuccheri, e i lieviti, a loro volta, fanno fermentare questi zuccheri. Questo spiega anche perché il sake raggiunge una gradazione alcolica maggiore di altre bevande fermentate, arrivando intorno ai 17-20 gradi.

    La temperatura di fermentazione rimane solitamente all’interno di un range che va dagli 8 ai 18 gradi. Utilizzando una temperatura più bassa (12 gradi o meno), il tempo di fermentazione si allunga fino a 4-5 settimane. In queste condizioni, l’azione dei lieviti e il disfacimento del riso sono ritardati, l’acidità si riduce e il risultato è un sake dal gusto pulito e dall’aroma molto fruttato.